Si tratta di una patologia degenerativa del sistema nervoso centrale, che è clinicamente caratterizzata da rigidità, tremore e bradicinesia (rallentamento dei movimenti). Dal punto di vista anatomo-patologico il danno è costituito principalmente dalla degenerazione dei neuroni della sostanza nera del mesencefalo, a cui corrisponde dal punto di vista biochimico una carenza di Dopamina (neurotrasmettitore). Questa malattia prende il nome dal medico inglese James Parkinson che per primo la descrisse nel 1817.
E’ una malattia abbastanza frequente e colpisce l’ 1% della popolazione sopra i 60 anni di età. L’ età media di esordio si pone tra i 55 e i 60 anni, ed il decorso è progressivo per 15-20 anni. L’ esordio può essere giovanile (prima dei 40 anni) nel 5% dei casi. Si osserva una leggera prevalenza per il sesso maschile. Inoltre risulta una minor prevalenza in Asia ed in Africa.
Segnaliamo poi che esistono numerosi “parkinsonismi”, cioè condizioni patologiche con disturbi simili a quelli del morbo di Parkinson, da cui devono essere differenziate e che verranno nei prossimi articoli.
La diagnosi è essenzialmente clinica e si basa sulla triade suddetta (tremore, rigidità, bradicinesia) e su altri sintomi accessori, come disturbi vegetativi, instabilità posturale, micrografia ed altri. Tuttavia ora la diagnosi può essere agevolata e completata da metodiche strumentali, quali la Risonanza Magnetica cerebrale e, soprattutto, la PET (tomografia ad emissione di positroni) e la SPECT (tomografia ad emissione di singoli fotoni) utilizzate con specifici traccianti radioattivi.
L’eziologia del morbo di Parkinson è a tutt’oggi sconosciuta. Tuttavia, sulla base delle attuali conoscenze scientifiche, possiamo ipotizzare che fattori tossici ambientali, associati a meccanismi metabolici endogeni deficitari a causa di una predisposizione genetica, siano in grado di determinare l’ insorgenza della grande maggioranza dei casi di questa malattia. Dobbiamo anche rilevare che esistono delle forme di morbo di Parkinson familiare e che queste rappresentano il 5-10% di tutti i casi della malattia.
Per quanto riguarda il trattamento, attualmente non esiste una terapia che arresti definitivamente il corso della malattia. Tuttavia i progressi negli ultimi quarant’anni sono stati molto rilevanti.
E’ fondamentale correggere il deficit dopaminergico. A questo scopo si usa la Levodopa (in associazione ad un inibitore periferico della DOPA-decarbossilasi). In base alla situazione clinica si utilizzano anche : Inibitori delle monoaminoossidasi-B (selegilina, rasagilina); Agonisti dopaminergici, quali Bromocriptina, Lisuride, Pergolide, Diidroergocriptina, Cabergolina, Piribedil, Apomorfina (parenterale), e soprattutto Ropinirolo, Pramipexolo e Rotigotina (questa per via trans dermica); Amantadina (antagonista del glutamato; Anticolinergici (ormai di scarso uso) come triesifenidile, biperidene, bornaprina, orfenadrina. Ricordiamo poi le possibilità di intervento neurochirurgico, in casi ben selezionati, sia come neuro stimolazione (nucleo subtalamico, globo pallido), sia come neuro-lesione (talamo, pallido, sub talamo). Infine, per quanto riguarda la terapia con cellule sostitutive e la terapia genica, devono entrambe essere considerate ancora procedure sperimentali.